Quando i chicchi d’uva di Caravaggio sancirono la fine della gerarchia tra i generi della pittura


Quando i chicchi d’uva di Caravaggio...

“Tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure”. Sembra un’affermazione ovvia per i nostri tempi ma la celebre frase attribuita dalle fonti a Caravaggio ribaltava di fatto la classica gerarchia fra i generi della pittura. Un affronto per l’epoca: basti pensare che lo stesso marchese Giustiniani, uno dei suoi protettori, stimava poca cosa per un grande artista “saper ritrarre fiori e altre cose minute”. In sostanza Michelangelo Merisi noto col nome di Caravaggio (Caravaggio, 1571 – Porto Ercole, 1610) era avanti di due secoli testimoniando, con la sua pittura un interesse per il soggetto inanimato non più periferico e complementare alla figura umana, ma centrale ed esauriente.

Chicchi e tralci d’uva ma anche mele, pere, fichi, acquistano la stessa dignità di santi ed eroi.  Motivo per cui lo si considera precursore della modernità e del realismo di Courbet, come quest’ultimo dall’indole ribelle e dal temperamento rissoso, la cui vita fu costellata di scandali e ripetute trasgressioni che non compromisero in alcun modo la sua inesauribile vena artistica e libertà creativa. 

“Mi piaceva provocare quei preti piagnucolosi – confesserà – loro volevano immagini trionfali e io gli davo santi con i piedi da contadini e la faccia rugosa … Però è così che io voglio dipingere e io sono il più grande”.

Sua la natura morta più famosa di tutti i tempi (raffigurata anche sulla banconota da 100mila lire emessa in Italia dal 1994 al 1998): la Canestra di frutta conservata alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, 31 x47 centimetri di olio su tela per rappresentare una ‘natura’ più viva che morta. Il quadro, realizzato dal giovane pittore lombardo intorno al 1596 su commissione del cardinale Francesco Maria del Monte (rappresentante dei Medici a Roma) entrò a far parte della collezione dell’arcivescovo di Milano Federico Borromeo, il quale prima di lasciare la città per trasferirsi a Roma, espresse la volontà di farne dono alla Pinacoteca Ambrosiana, istituzione da lui fondata.

L’opera viene menzionata dal Borromeo in un codicillo del 17 di settembre 1607 “Un quadro di lunghezza di un braccio, et di tre quarti all’incirca di altezza, dove in campo bianco è dipinto un Canestro di frutti parte ne rami con lor foglie, et parte spiccati da essi/fra questi vi sono due grappoli di uva, uno di bianca, et / l’altro di nera, fichi, mele, et altri di mano di Michele/ Agnolo da Caravaggio”. Lo stesso Borromeo ritornerà sulla tela elogiandola ma precisando “Io avrei voluto porgli accanto un altro canestro simile, ma non potendo alcuno raggiungere la bellezza ed eccellenza incomparabile di questo, rimase solo“, parole che rivelano come il mercato dell’arte non fosse ancora maturo e in grado di poter soddisfare, ad un tale livello di mimesis, le richieste della committenza. 

Il dipinto apre ad una doppia lettura: da una parte c’è l’illustrazione lenticolare della natura dipinta: le foglie in parte accartocciate e secche con piccole macchie scure, la mela bacata, l’uva bianca con la sua patina bianca in superficie. Ma poi c’è una visione d’insieme perché il dipinto conduce lo sguardo dell’osservatore verso un’ideale sfericità grazie alla luminosità diffusa e avvolgente della tela e a quel piccolo ma strategico accorgimento di posizionare la canestra sporgente e quasi in bilico rispetto al piano d’appoggio in primo piano. La scelta di questo taglio permette così alla composizione di far emergere i soggetti dipinti verso l’uso di uno sfondo chiaro, uniforme e luminoso; la luce sembra provenire da una fonte naturale e svela le gradazioni di colore che differenziano gli acini chiari, acerbi in primo piano e quelli già molto maturi nel grappolo che sbuca dietro la mela bacata, creando un effetto illusionistico tridimensionale dell’immagine. 

La frutta, protagonista assoluta del quadro, diventa con le sue imperfezioni scaturite dal tempo (le foglie rinsecchite, la mela con un buco sul davanti) metafora esistenziale che impone una riflessione serena ma approfondita sulla vanitas dell’esistenza e sulla fragilità e caducità della vita.

Analogamente il canestro di vimini intrecciato – che ritroviamo in tutta la sua lucentezza e palpabile tattilità in altri due capolavori di Caravaggio: il Ragazzo con canestra di frutta alla Galleria Borghese di Roma e la Cena in Emmaus della National Gallery di Londra – simboleggia la Chiesa che accoglie e protegge i suoi figli e la volontà del clero di offrirsi all’umanità, come sottende la sua posizione aggettante sulla mensola.   

E in tutti questi rimandi e allusioni oltreché nella straordinaria qualità pittorica della tela consiste la grandezza del capolavoro di Caravaggio.

FIAMMA DOMESTICI

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