Prefazione – 2023
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Il 28 Ottobre 1945 Parigi trova il suo amato e discusso maître a penser che infiammerà le discussioni intellettuali tra il dopo guerra e la contestazione del ’68.
Tutto ha inizio con la conferenza che il filosofo Jean Paul Sartre tiene al club Maintenant, tra il Gran Palais e la Senna, su Esistenzialismo ed Umanesimo. Il pubblico, pur pagando un biglietto, è talmente accalcato che quasi nessuno riesce a vedere il relatore. Di statura sotto la media, Sartre giganteggia offrendo ad una disorientata intellighenzia parigina la bussola che guiderà il periodo più disperato della storia contemporanea, quando la luce sinistra di Hiroshima acceca ancora gli occhi del mondo.
“Se vogliamo sopravvivere – afferma in quella sede il fondatore dell’esistenzialismo – dobbiamo decidere di vivere”.
E la vita in pienezza ed all’eccesso fu proprio la cifra di questo personaggio, simbioticamente trascorsa con la città che nell’immaginario collettivo ha sempre rappresentato l’avanguardia dei cambiamenti epocali. In fondo, come dirà lo scrittore André Malraux, parlando di Montparnasse e dell’intero cuore pulsante di Parigi: “Tutto quello che è successo, succede o succederà al genere umano, qui è visibile ad occhio nudo”.
Per conoscere al meglio JP Sartre occorre vivere con lui la quotidiana atmosfera dei cafè. In uno dei più famosi dell’epoca, Deux Magots, dominate dalle due statue cinesi del vecchio bazar, il filosofo aveva scritto L’essere ed il nulla e durante l’occupazione nazista, conosciuto lo scrittore Albert Camus, di cui divenne amico. Questi due intellettuali non avrebbe potuto essere più diversi: Jean Paul figlio dell’alta borghesia francese, occhiali spessi, labbra da cernia, non certo un Adone; Albert franco-algerino, pied noir nato povero, lineamenti alla Bogart. Mentre consumavano una petit dejuner, ancora oggi chiamata “Sartre” nel menù del Deux Magots, di lì passava la storia ed il mondo. Fra un black – coffee ed un espresso, pane tostato con burro del Poitou – charenter, croissant bi-colori e marmellate fatte in casa si parlava, pur da profili e posizioni diverse, prendevano il reciproco impegno a “dare all’epoca del dopo-guerra la sua ideologia”.
Il perimetro vitale quotidiano di JP Sartre non è amplissimo. Il suo minuscolo regno di uomo e amante, scrittore e filosofo ha il profilo della ville Lumière, anzi della sua parte più baricentrica. Questo scrigno che ne custodisce la biografia è magistralmente descritto da Thomas Wolfe: “Miscuglio di costose essenze, di vino, brandy e birra; dell’acre nostalgico odore del tabacco francese, di caldarroste e misteriosi alcolici, di centinaia di inebrianti colori e dell’elegante apparizione di donne inprofumate”.
Si tratta del cuore pulsante di Parigi, raccolto intorno a cafè, bistrot, brasserie, jazz club, già celebri o al momento meno conosciute. Intorno a Saint Germain de Pres troviamo il Cafè de Flore, il Deux Magots, la brasserie Lipp, il club del Tabou. Presso Montparnasse, invece, la brasserie La Coupole ed il cafè Bec- de – Gaz
Per Sartre ed amici sostare nei cafè non era all’inizio un vero e proprio lusso. Specialmente nel periodo pre-bellico si trattava anche di sopravvivenza. In inverno era infatti difficile scrivere nelle fredde stanze di alberghi non certo di lusso. In questi spazi ci si immerge in modo totale e discreto nel costume dell’epoca, tanto che Simone de Beauvoir, compagna storica di Sartre, dirà: “Non c’è modo migliore di capire la società in cui si vive che osservare le persone mentre non sanno di essere guardate”. Ma non è certo assente lo stimolo della curiosità culturale. Il famoso cameriere del Deux Magots citato da Sartre nei suoi scritti, è un esempio che delinea una precisa psicologia umana, quella di chi, per essere sempre sollecito verso il cliente, vive nella perpetua rappresentazione di sé.
I tavoli dei cafè e bistrot parigini più familiari saranno, come vedremo, anche un vivace laboratorio politico, luoghi di epiche discussioni tra le varie anime della sinistra francese dinanzi ai grandi bivi del XX secolo.
Soprattutto saranno il fil rouge del lungo e contrastato amore tra Jean Paul e Simone.
Fu proprio in uno di questi cafè, il Bec – de-Gaz, nel 1929, che i due si conobbero la prima volta, quando ancora insegnavano lontano da Parigi: lui a Le Havre, lei a Rouen. Messi entrambi al tappetto da una lunga dissertazione dell’amico Aron sulla fenomenologia tedesca, trovarono consolazione in un cocktail all’albicocca. Tra un mix di gin, brandy all’albicocca, succo di arancia e limone, tocco finale di cherry e buccia di arancia fiammata, ebbe inizio la celebre liaison, che proseguì in altri caffè parigini, tra cui il Flore.
Così scrive Simone de Beauvoir: “Può sembrare bizzarro, ma ci sentivamo a casa al Flore”. Per molto tempo, l’intera giornata fu scandita dall’orologio di questo cafè: intenso lavoro mattutino (spesso al primo piano per evitare distrazioni), pausa pranzo qui o in brasserie vicine, pomeridiani incontri di pubbliche relazioni. Dopo cena, venivano ricevuti gli amici a cui si dava appuntamento, anche per feste serali.
Sartre va oltre ed attribuisce un vero e proprio valore filosofico al suo rapporto con questo caffè: “Le strade verso il Flore, per me, furono per anni le strade verso la libertà “. Non è un caso che vicino a questo “pensatoio” si trovasse la sede del famoso editore Gallimard, specializzato in testi filosofici.
Lo spirito ed il corpo si accompagnavano a vicenda. Far partire la giornata con pain aux raisins (pasta brioche con uvetta, imbottita a volte con crema pasticcera) o Beurre d’Echiré (dal delicato sapore di nocciola e servito ancora oggi all’Eliseo) accompagnato con confetture era un sicuro ottimo esordio. Così come interromperla per un pranzo con la rinomata omelette ai funghi selvatici, la bistecca alla tartara, la carne di maiale salate con lenticchie o indirizzarla al meglio verso metà pomeriggio con la coupe Flore (gelato con vaniglia, pistacchi, sorbetto al lampone, succo di frutta rossa e crema chantilly).
Jean Paul e Simone lasceranno le tracce della loro presenza in diverse brasserie parigine. Tra quelle più amate, la Lipp, 151, Boulevard St. Germain, definita dai proprietari “casa immutabile”. Qui, oltre alla birra di produzione propria, tra specchi, maioliche ed affreschi, si consumavano e si trovano ancora oggi specialità della casa come la cervelas rémoulade o la cassoulet.
Entro lo stesso quartiere non sono infrequenti i loro passaggi a La Palette, in cui magari consumare un veloce e delizioso croque Monsieur o Madame con lo speciale pane di Poilane, chiamato anche di campagna, arrotondato ed enorme, realizzato con una particolare combinazione di farina bianca, integrale di frumento e segale.
Se passiamo a Montparnasse, una sosta a La Coupole era obbligatoria, specialmente per il pranzo domenicale. In questo regno dell’art decò, i due sono divisi tra mare e terra. A volte si lasciano tentare con piacere dalle specialità principali: il piatto del pescivendolo o quello de La Coupole (solo ostriche di ogni tipo e misura). Ma Sartre, che non ama particolarmente i crostacei, opta spesso anche per “l’esotico e sempre amato agnello al curry”. Curiosità particolare: dal 1970, a seguito della legge Pompidou sulla privacy, il tavolo accanto al loro abituale sarà sempre tenuto vuoto.
Ai funerali di JP e Simone, tenuti rispettivamente nel 1980 e 1986, al passaggio dei feretri, i maître ed i camerieri del locale saranno tutti fuori in piedi, con i tovaglioli bianchi piegati sotto il braccio sinistro.
Sempre in questo quartiere, saranno numerose le soste a La closerie des Lilas, aperto nel 1847 e già covo di famosi artisti e letterati. Molto apprezzato qui il petto d’anitra di fattoria del Puntoun, con salsa alla vaniglia e contorno di piselli ed albicocche. Per quanto riguarda il dessert, da non perdere l’esotico millefoglie alla vaniglia de La Réunion, isola dell’Oceano indiano.
Ma la passione culinaria dei due amanti non ha avuto come location solo la ville lumiere.
Quando il loro amore era ancora clandestino, JP approfittava del soggiorno estivo di Simone a Le Grillière presso la casa di famiglia, per andare a trovarla. Alloggiava presso La Boule d’Or e non disponendo ancora di molti soldi, veniva spesso rifocillato, per così dire, dalla stessa Simone, che, rubando il cibo da casa, organizzava per lui ghiotti picnic con cestini colmi di formaggi, ginger bread, carne fredda, panini imbottiti vari e sidro.
Seguendo le varie notazioni di Simone, è possibile ricostruire anche una piccola guida culinaria della Francia, che diventa una modalità privilegiata per scoprire i segreti della provincia. Più volte citato il fois gras di ogni possibile territorio, accompagnato da vino Beaujolais. Compare poi la quiche di Verdun, consistente come una torta e leggera come un soufflé, e la quinelle mangiate a Digione e mai così apprezzate (grossi gnocchi fatti con crema di pesce, pollo o carne e a volte mescolata con molliche di pane ed uovo).
Simone de Beauvoir concentra nel cibo tutta la propria gioia di vivere, come ben dicono queste parole: “Quando mi metto a tavola alla fine della mattinata o del pomeriggio, affamata di nutrimenti terrestri, ho il cuore in festa”.
Per lei il cibo è anche luogo di cultura umana, come rivelano le sue note di viaggio relative al pranzo con Jorge Amado, che le riempie il bicchiere di succo di cajou, l’esotico papà degli anacardi, ed il piatto di feijoada (stufato di fagioli e diversi tipi di carne, accompagnato da riso, farofa, cavolo nero, fette di arancia e spezie varie), che lei definisce scura e profumata. Lo scrittore brasiliano, convinto che per conoscere un paese si debba prima di tutto sapere quello che vi si mangia, porta i due francesi a mangiare nelle churrascarias, in cui si degusta il rodizio di carne, grigliata tipica di carni locali. In nessun posto al mondo, confessa Simone, ho mangiato carne così saporita.
Ma i due manifestano una predilezione speciale per la cucina italiana, dove il piacere per il cibo è pieno e la piacevolezza estiva ed il vagabondare all’aperto li porta a vivere all’unisono clima, ambiente e cibo. Per fermare alcune istantanee di questo pellegrinaggio laico nella penisola, ci preme ricordare: le carbonare nelle osterie romane; le lasagne dell’albergo Forio ad Ischia; gelati e sorbetti di ogni tipo e possibile gusto; gli immancabili caffè, dappertutto forti e ben fatti.
In loro la mondanità si conciliava anche con la politica. Sempre ai tavoli del Deux Magots, davanti ad un café créme e le volute viscose delle Gauloises brunes, si consuma lo strappo ideologico tra due amici. Negli anni in cui Juliette Greco cantava nell’altro angolo le canzoni di Aragon e Prevert, tra Sartre e Camus, come scrive Le Monde, ci furono diversi litigi. Il secondo, con il suo “socialismo pacifico” espresso nell’opera L’uomo in rivolta (1951), condannava sempre la lotta rivoluzionaria, che realizza la giustizia distruggendo la libertà. Di diverso avviso Sartre, che era ancora fermo alla bontà palingenetica del comunismo rivoluzionario.
Più piacevoli invece il ricordo di quella che il filosofo francese chiama “la luna di miele della rivoluzione”. Si tratta del mese che nel Febbraio 1960 JP e Simone trascorsero a Cuba, ospiti di Fidel Castro e del Che, appena un anno dopo la vittoria dei barbudos. Nelle foto del cubano Korda, fa ancor più impressione il contrasto tra il fisico statuario di Guevara, mentre accende un sigaro all’ospite, e Sartre, che appare ancor più piccolo e malaticcio del solito. Anche il leader massimo li incontrò più volte, anche a tavola. Pare che una volta, data la sua nota passione gastronomica, si sia addirittura sostituito al cuoco. Nel caso, con molta probabilità, preparando una delle sue ricette preferite: spiedini di gamberi, cotti sulla brace sei minuti precisi, con il solo condimento di burro, aglio e limone. Infatti, come spesso affermava: “Il cibo gustoso è sempre semplice. I cuochi internazionali sprecano tempo”.
Solo la notte chiudeva le giornate infinite ed intense di JP e Simone. Possiamo rappresentarle in questo dittico di parole. Scrive Sartre: “Preferirei non far nulla, che fare tutto con pacatezza”. Rilancia De Beauvoir: “In musica, nelle risate si trovano l’esaltazione dell’attimo e l’incontro con gli altri”.
Per questo, con l’intero circolo di amiche ed amici, si spostavano nei luoghi della vita notturna parigina in cui, per dirla ancora con il filosofo francese, si incontrano il piacere del vino e delle feste. Come nel caso del Club del Tabou,33, Rue Daphne, dalla fine degli anni ’40 eletta cave di artisti ed intellettuali. Le cronache parlano di nebbie da fumo londinese e di un frastuono così intenso che, per reazione non ci si vede. Definito “luogo di follia organizzata”, ospitava personaggi in ascesa del mondo della canzone francese e del jazz, tra vecchia swing era e frontiere del nuovo be box. In questo locale, complice JP Sartre, nacque l’amore tra Miles Davis, 23 anni, il più grande trombettista della storia del jazz e Juliette Greco,22 anni, cantante-attrice e musa del dopo-guerra francese. Ed era stato proprio il fondatore dell’esistenzialismo a sceglierla e crearla come voce ispiratrice della sua stessa corrente culturale.
Una mattina, dopo le primissime esibizioni nei jazz club, la invitò a casa sua, consegnandone alcuni libri di poesie e chiedendole di sceglierne una per trasferirla in canzone. Lei scelse Si tu t’imagines di Raymond Queneau: “Se pensi/ragazza ragazzina/se pensi/ che durerà/che durerà per sempre/la stagione degli amori/quanto sbagli/ragazza ragazzina”.
E’ il canto dell’amore, non della consolazione. La stessa cifra di questa lunga stagione culturale, in cui l’euforia non si scrolla mai di dosso la malinconia del vivere.
FRANCO BANCHI