Prefazione – 2023
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di Anna Cafissi
L’Iliade e l’Odissea sono certamente i più antichi poemi della letteratura occidentale. Furono composti in Grecia durante i “secoli bui” che seguirono alla scomparsa dei regni micenei (XII-XI sec. a.C.) e messi per iscritto nell’VIII secolo, quando cioè i Greci cominciarono a usare l’alfabeto fonetico, una forma più arcaica di quello in uso in età classica, e chiamarono quei caratteri foinikà perché li avevano desunti dall’alfabeto fenicio.
Studi e ricerche fondamentali effettuati nel secolo scorso sui due poemi, da sempre attribuiti ad Omero, portarono tuttavia in una direzione assai nuova.
Negli anni ’30 del XX secolo il grecista e filologo statunitense Milman Parry, dopo approfonditi studi condotti a Berkeley, alla Sorbona ed a Harvard, nonché dopo due soggiorni in Jugoslavia dove ascoltò e registrò gli antichi canti epici locali, tramandati oralmente, arrivò alla conclusione che i bellissimi esametri dei due poemi “omerici” erano il risultato della così denominata oral composition. In altre parole, i poeti cantori, cioè gli aedi, versificavano usando la loro prodigiosa memoria e usando molte espressioni formulari ( come, ad es., Pié veloce Achille, Aurora dalle rosee dita, Era dalle bianche braccia, o Disse parole alate, ecc.) , che li aiutavano a comporre più agilmente i versi.
Purtroppo l’improvvisa e drammatica morte di Milman Parry nel 1935 mise fine ai suoi studi rivoluzionari, che furono tuttavia continuati dal collega Albert Lord e dal figlio Adam Parry (cfr. M. PARRY,, L’épithète traditionelle dans Homère, Paris 1928; ID., The Making of the Homeric Verse. The collected papers of Milman Parry, a cura di Adam Parry, Oxford 1971).
La teoria della “pura oralità” di Parry è accettata oggi quasi universalmente dai grecisti.
Comunque siano stati composti e cantati, l’Iliade e l’Odissea costituiscono una fonte insostituibile non solo per la conoscenza della storia, della cultura, della religione e dell’epos degli Achei, ma anche per quanto riguarda le loro abitudini alimentari.
Sappiamo da Sofocle (Aiace ,53-54) che l’eroe di Salamina, Aiace Telamonio, reso folle dall’ira della dea Atena, compie una strage di pecore, capre e vacche, poiché vede in questi animali i Greci che gli avevano negato le armi di Achille.
Sofocle chiarisce che la mandria faceva parte “della preda bellica ammassata e non ancora divisa”. Gli Achei che assediavano Troia infatti compivano razzie per nutrirsi e tenevano poi le bestie sottratte in campi da pascolo posti vicino al loro accampamento. In tal modo non pativano la fame che da sempre deriva dalla guerra.
Dopo le fatiche dello scontro quotidiano sotto le mura di Troia, andavano a rifocillarsi con alimenti nutrienti e proteici; talvolta partecipavano anche a banchetti. Bellissima la descrizione dell’ecatombe e del successivo banchetto in onore di Apollo nel I libro dell’Iliade (vv. 458-474). Anche in occasione del funerale di Patroclo, Achille offre un banchetto, che si tiene con toni molto mesti:
“ Ricca cena funebre egli offrì loro,
e molti bovi bianchi muggivano sul ferro,
scannati, e molte pecore e capre belanti,
molti porci candide zanne, fiorenti di grasso,
arrostivano stesi nella fiamma d’Efesto” (Iliade, XXIII, 29 ss.; trad. di Rosa Calzecchi Onesti).
Il cibo di solito era semplice: pane intero, vino scintillante (aithops oinos), ma annacquato, carne di pecora, capra, bue e maiale, arrostita oppure posta sullo spiedo. Ricordiamo, ad es., il brano in cui Achille prepara la carne da arrostire: Iliade IX, 206 ss. Si veda anche Odissea IV, 55 ss. La carne veniva spartita equamente, ma agli ospiti di riguardo veniva riservata la parte migliore, la lombata; una sorta di “Fiorentina”, per intenderci. Così fa Agamennone col valoroso Aiace (Iliade VII, 321 ss.) e Menelao con Telemaco ed il figlio di Nestore (Odissea IV, 65 ss.).
Nei pasti dei Greci tuttavia non potevano mancare i formaggi, assicurati dalla presenza di ovini e caprini. I marinai di Ulisse si affrettavano a portar via dalla grotta del Ciclope Poliremo tutto il cibo necessario a sopravvivere, cominciando dai formaggi: Odissea IX, 225 e 232.
Nei testi omerici non si fa tuttavia mai accenno al pesce ed alla cacciagione. Evidentemente i guerrieri non gradivano l’idea di cibarsi di pesce. Quando Odisseo approda sull’isola di Trinacria, i suoi compagni, solo dopo aver esaurito le scorte di bordo, vanno a caccia e a pesca costretti dalla fame e dalla necessità. Poi, però, spinti dall’abitudine di consumare carne, finiscono per scannare le vacche sacre di Apollo e per divorarle, ignorando che ciò comporterà grossi guai (Odissea XII, 329 ss.).
Anche Polifemo e i Lestrigoni sono carnivori e per di più anche antropofagi! (Odissea IX, 287 ss. e X, 124).
Sull’assenza di pesce nell’alimentazione degli “eroi di Omero”, si sofferma acutamente Platone, ricordando che, anche se l’accampamento degli Achei era vicino al mare, sull’Ellesponto, estremamente pescoso, era opportuno che essi si cibassero non di carni cotte, ma soltanto arrosto “come più agevoli a dei soldati, giacché è comunque più facile servirsi del fuoco anziché portarsi sempre in giro dei recipienti” (Repubblica, III, 946 B-C).
Nel 2006 uno studio ampio e accurato di Massimo Cultraro sulla civiltà micenea (I Micenei. Archeologia, Storia e Società dei Greci prima di Omero, Roma 2006) ha confermato quanto suggerito dai poemi omerici: l’aristocrazia guerriera degli Achei (guidata dal Wanax, dal Lawaghetas e dal Basileus) seguiva una dieta fortemente proteica. Ne sono prova anche i resti ossei trovati nelle tombe di Micene, che hanno rivelato individui dai fisici potenti, muscolosi e più alti (circa m. 1,72) della media del tempo.
I rilievi e le analisi sono stati condotti da esperti dell’Università di Manchester e del “Demokritos” di Atene.
Sempre nel Peloponneso, ma in età classica, gli Spartani, o meglio gli Spartiati, che costituivano il gruppo dirigente dorico che guidava la polis, avevano mantenuto l’uso di consumare una zuppa a base di carne: si tratta del celebre “brodetto nero” (melas zomòs) tanto famigerato e scarsamente appetibile fuori di Sparta.
Plutarco (Vita di Licurgo, 12) chiarisce che si trattava di una zuppa di colore scurissimo, fatta con spezzatino di maiale, cui si aggiungeva sangue suino e vino o aceto; probabilmente alla carne venivano aggiunte anche le interiora. C’è una certa somiglianza con un piatto in uso in Germania, la odierna Schwarzsauer.
Gli Spartani erano famosi per molte ragioni: erano guerrieri valorosi, avevano il senso della disciplina e del sacrificio, parlavano solo a proposito. Ma purtroppo fra i loro lati negativi, fra cui il fatto di essere ritenuti dagli Ateniesi bugiardi e ladri, va posto il consumo del “brodetto nero”, certo altamente proteico, ma disgustoso.