Prefazione – 2023
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Parlare del fiasco, un oggetto d’uso comune, realizzato con vetro non di pregio e rivestito di erba palustre, può sembrare un forzato recupero di microstoria, di folclore e di nostalgica riscoperta di tradizioni ormai perdute, retaggio di un passato artigianale connesso all’economia agricola. Al contrario la storia di questo recipiente in vetro si svolge attraverso i secoli, grazie all’abilità dei maestri “fiascai” che soffiavano a canna e al più sommerso indotto femminile che si occupava della vestizione dell’oggetto finito, per difenderlo dagli urti e dall’eccesso di luce.
Fu proprio il fiasco, recipiente prevalentemente destinato a contenere vino e olio, a stabilire una stretta relazione tra i due principali prodotti dell’economia toscana, sino a divenire un simbolo tangibile del legame tra la risorsa agraria e quella manifatturiera. Negli ultimi anni è stata avviata una sistematica ricostruzione delle vicende del fiasco, descritto dal Novo Vocabolario della lingua italiana della Crusca del 1887-1897 come “Un vaso di vetro, rotondo e corpacciuto […], senza piede; con una copertura o [ ] veste di sala 1 , che cinge il corpo, e forma appiè di questo la base”.
Sono stati analizzati i frammenti provenienti da scavo, è stata avviata la catalogazione di oggetti conservati in collezioni private, talvolta divenuti veri e propri musei, analizzate le immagini pittoriche, specie quelle di area toscana, che sono in grado di attestare con esattezza le variazioni formali e l’utilizzo pratico di quel recipiente. In parallelo le fonti archivistiche riferiscono puntuali notizie sulle disposizioni legislative riguardanti le gabelle sul vino e i bandi emessi per evitare le frodi sul quel prezioso contenuto, ritenuto un alimento nutriente oltre che un componente essenziale per i medicamenti preparati nelle spezierie.
Ne è risultata un’indagine intrigante, condotta su più fronti, non sempre facile e talvolta ostacolata da coloro che ancora ritengono valida la divisione tra arti maggiori e arti minori. Sono emerse le connessioni sulle consuetudini di vita attraverso i secoli, i commerci, la viabilità, la rete economica, oltre la costante perizia dei maestri vetrai dai quali dipendeva la perfezione del recipiente, utilizzato per l’imbottigliamento, il trasporto sino a comparire sulla tavola.
É ancora incerta la data di avvio del fiasco realizzato in vetro che, dalla prima metà del XIV secolo, sostituiva, per ordine dell’Arte dei Medici e Speziali, il recipiente di metallo stagnato. La disposizione legislativa intendeva, infatti, porre fine alle continue frodi sulla composizione della lega metallica, alla quale era aggiunto troppo piombo, nocivo alla salute e causa dell’alterazione organica del liquido contenuto. Inoltre era noto sin dall’antichità, che il vetro non modificava la consistenza e il sapore del liquido, non trasmetteva odori o sapori, come invece succedeva per i contenitori in terracotta, dotati di pareti porose.
Le notizie archivistiche documentano la presenza del fiasco in vetro dall’inizio del Quattrocento e i pochi frammenti di fondi convessi, pertinenti a recipienti apodi, recuperati in contesti sottoposti a indagine archeologica, sono emersi in strati databili all’inizio del secolo successivo. Un’eccezione che anticipa la datazione dell’avvio del fiasco in vetro è offerta da due Novelle del Decamerone (VIII, della IX giornata; II, della VI giornata), compilato da Giovanni Boccaccio tra il 1348 e il 1353, che fanno riferimento al quel recipiente di vetro, specifico per contenere il vino.
Nell’VIII novella si racconta di Ciacco, “uomo ghiottissimo”, che fu ingannato da tal Biondello sull’aspettativa di un lauto pranzo che, invece, si rilevò alquanto frugale. Ciacco restituì a Biondello la beffa subita, invitandolo a recarsi da un personaggio notoriamente collerico al quale doveva chiedere di riempire un fiasco vuoto con ottimo “vino vermiglio”: la reazione fu aspra e Biondello si allontanò con il fiasco vuoto. L’altra novella, la II della VI giornata, riferisce del fornaio Cisti che rifiutò di consegnare il suo ottimo vino a un garzone che, per tenere per sé una parte di quella prelibatezza, si era munito di un “gran fiasco”, con ogni probabilità della capacità di cinque litri. Una volta chiarito l’equivoco truffaldino, il vino venne consegnato in un fiasco di giusta misura.
Oltre la facezia dei racconti le due novelle offrono un preciso cenno al recipiente di vetro, realizzato di varie misure e capacità. Non si riscontra alcun cenno sulla disposizione dell’impagliatura, ma erano le fornaci toscane, o più esattamente dell’area valdelsana, a produrre i fiaschi e distribuirli nei centri più grandi e in via di sviluppo demografico, come Firenze, dove furono attivate vetrerie, delle quali si conoscono i protagonisti e le vicende, che ebbero ampio successo, tanto da dare avvio a un notevole “traficho” di committenze.
A conferma di come il fiasco impagliato fosse realizzato già nel corso del Trecento, alcuni documenti della prima metà di quel secolo evidenziano la distinzione tra il termine “bicchieraio”, ossia il vetraio che realizzava vetri d’uso comune, come bicchieri, ampolle, bottiglie e lucerne e si occupava anche della vendita diretta dei prodotti finiti, e il “fiascaio” inteso come maestro specializzato nella realizzazione di quel recipiente. Era, infatti, necessaria una particolare perizia e capacità intuitiva nel calcolare, nella fase del soffio manuale (“soffio libero” o “a bocca”), l’equilibrio tra lo spessore della parete centrale e quello del collo, in modo da evitare sottigliezze o profondità non bilanciate, causa di fratture che provocavano l’inevitabile dispersione del prezioso contenuto. Tuttavia non è ancora certo se il compito di ricoprire i fiaschi, con l’erba palustre detta “sala” o “stiancia”, spettasse ai fiascai o se il mestiere di “richuoprire con la vesta” fosse autonomo, affidato a maestranze esterne, anche se svolto all’interno della fornace.
Un successivo inventario, redatto nel 1435, da Nicholaio di Ghino, uno dei più noti vetrai, originario di Gambassi in Valdelsa, attivo a Firenze e titolare di un’avviata fornace nel Popolo di San Marco, dichiarava di possedere “libbre 4000 di sala da fiaschi”, nonché un numero ingente di fiaschi “cholle vesta e ignudi”.
La notizia che i fiaschi in vetro fossero prodotti già alla metà del Trecento è confermata da una coeva testimonianza pittorica. Il pittore Tomaso da Modena in un affresco che raffigura San Gerolamo seduto su uno scanno nel proprio studiolo intento a studiare testi antichi, raffigura un fiasco di forma globulare, rivestito con cordicelle disposte orizzontalmente, che lasciavano libera solo la bocca. Il recipiente è appeso a un chiodo infisso nella parete, secondo una consuetudine estremamente pratica, sostenuto dalle cordicelle laterali intrecciate a spirale (fig. 1).
Trattandosi dello studiolo di un monaco è presumibile che il fiasco contenesse vino liquoroso per alleviare i rigori invernali, oppure, e l’ipotesi sembra più consona all’attività svolta dal religioso intento nella trascrizione di testi classici o sacri, conservasse inchiostro per la scrittura, da travasare in apposite fialette, con funzione di calamaio. Il fatto che quell’affresco, del 1352, sia opera di un pittore emiliano, distante dalle tradizioni figurative toscane, si dimostra una preziosa attestazione di come quel particolare recipiente fosse diffuso anche fuori dei confini regionali, confermando la presenza, non sporadica né occasionale, di vetrai valdelsani che operavano fuori sede.
Non è casuale che a Modena, città d’origine del pittore Tomaso, risultasse attiva, sin dal terzo decennio del Trecento, una fornace condotta da vetrai fiorentini. Inoltre è ormai noto come i vetrai emigrati fuori del propri confini territoriali fossero soliti mantenere viva la propria tradizione operativa e introdurre oggetti estranei alla realtà forestiera dove operavano. Il tal modo contribuivano alla diffusione di tecniche e di tipologie, adattate a diverse realtà operative e a consuetudini agrarie e domestiche.I documenti del ‘400 sono invece dettagliati nel fornire informazioni sulla diversa capacità dei fiaschi d’uso corrente: esisteva un fiasco grande, detto “di quarto”, di litri 5,7, equivalente a una piccola damigiana attuale, uno medio, detto “di mezzo quarto”, di litri 2,8, e infine uno piccolo, detto “di metadella”, di litri 1,4. Questa notizia lascia intuire che il commercio del vino e dell’olio, ma soprattutto del vino, dalle terre del contado alla città, fosse assai fiorente e rivolto sia a coloro che lo acquistavano per il proprio consumo che a coloro che lo utilizzavano per la vendita al dettaglio.
Le testimonianze pittoriche, in un’ampia casistica, illustrano con precisione la forma e la funzione del fiasco. I recipienti grandi erano utilizzati con funzione di scorta. Un esempio, noto ma di estrema puntualità descrittiva, è offerto da un dipinto di Sandro Botticelli, del 1483, che illustra una scena del Banchetto per Nastagio degli Onesti. Appoggiati a un tronco, per protezione dagli urti e per usufruire dell’ombra, sono raffigurati due grandi fiaschi, utilizzati per travasare il vino in ampolle, di vetro o di metallo, che i coppieri provvedevano a versare nei bicchieri dei commensali (fig. 2).
Fiaschi altrettanto capienti, ma decisamente più agili da trasportare, sono quelli raffigurati in una lunetta dell’Oratorio fiorentino dei Buonomini di San Martino, intenti nella distribuzione di cibo a persone in difficoltà e assistite dalla confraternita laica (fig. 3).
Il dipinto, riconducibile all’ambito della bottega dei Ghirlandaio e databile intorno al 1480, conferma come il vino, alla stregua del pane, fosse considerato un alimento energetico e nutriente. Non era secondario un puntuale riferimento al pane e al vino come componenti del rito eucaristico.
I fiaschi di misura ridotta, pari a 1,4 litro, erano utilizzati per contenere vino liquoroso, alcolico e dolce, spesso raffigurato nei dipinti del XV secolo nell’atto di offrirlo, dopo il travaso in bottiglie o bicchieri, alla puerpera per riprendere le energie perdute durante la nascita del piccolo.
I documenti d’archivio riferiscono quanto fossero costanti le frodi per eludere le tasse sul vino, trasportato e venduto in fiaschi, alle quali decreti e leggi tentavano di porre rimedio, spesso con poca efficacia. Un bando del 1481 stabiliva di limitare la vendita del vino in fiaschi perché la praticità ed il basso costo del contenitore facilitava il rapporto diretto tra produttore e consumatore, consentendo di eludere sia la gabella sul trasporto del vino, a totale carico dei barrocciai, che la tassa sulla mescita al minuto, addebitata agli osti.
Un secolo più tardi, nel 1574, per evitare le costanti frodi sulla quantità del vino un altro bando stabiliva che la capacità del fiasco fosse fissata in “mezzo quarto”, pari litri 2,8. Ma le frodi continuarono: bastava produrre fiaschi con spessore più sottile o appena più grandi della misura consentita dalla legge. In quel caso la tassa sul vino rimaneva invariata, ma la quantità di liquido trasportato era maggiore, avvantaggiano la vendita al dettaglio. Alcuni anni dopo, nel 1618, fu istituita una punzonatura di piombo, che consisteva in una “pallottola di piombo, bucata nel mezzo”, definita “segno pubblico”, da applicare direttamente sul rivestimento del fiasco, per omologare la capacità. Non fu sufficiente neppure questa soluzione a evitare le frodi, sebbene fosse stabilito che chiunque contravvenisse la disposizione legislativa fosse punito con una multa elevata, pari a “scudi dua per ogni fiasco”.
Fu presto escogitato il modo di eludere la nuova disposizione: bastava porre fiaschi di capacità diversa da quella prefissata o fiaschi nuovi entro vesti già omologate, munite del contrassegno della tassa pagata, per eludere la gabella. Nel 1626 fu deliberato che il bollo venisse apposto direttamente sul vetro. Fu allora che quel recipiente, che sino ad allora non aveva subito mutamenti nella forma e nel modo di disporre l’impagliatura, cambiò aspetto: il collo divenne più lungo e parte della spalla rimase scoperta, liberata del rivestimento di sala. Puntualmente i dipinti successivi al terzo decennio del Seicento documentano la nuova immagine del fiasco, mentre quelli appena precedenti attestano la forma tradizionale.
Una delle immagini più puntuali, confermata dalla datazione certa dell’opera pittorica, tanto da potersi considerare la cesura temporale rispetto all’innovazione legislativa, è offerta da un dipinto di Jacopo Chimenti, detto l’Empoli, che raffigura una Dispensa con vasellame, uova, insaccati e pesci (1625), nel quale è visibile un fiasco impagliato sino al collo, identico quelli realizzati nei secoli precedenti e non adeguato alla normativa del 1626 (fig. 4).
Il fiasco era un oggetto comune e di vasto impiego anche nelle spezierie e nei laboratori farmaceutici, per la capienza e il basso costo. L’Officina Profumo-Farmaceutica di Santa Maria Novella di Firenze ne conserva alcuni rari esemplari, databili alla fine del XVI secolo. Con ogni probabilità quelle “bocce” erano state realizzate da una fornace, al momento non identificata, ubicata a Pontorme, località posta tra Empoli e Montelupo Fiorentino, area geografica dalla quale giungevano alla farmacia domenicana anche i preziosi vasi di maiolica per conservare i medicamenti ed essere esposti “in mostra” su scaffali e mensole (fig. 5).
I fiaschi da spezieria, identici nella forma a quelli da vino, si distinguevano per l’impiego di vetro verde più chiaro e per la disposizione della paglia intrecciata a losanghe sovrapposte, in due o tre file orizzontali. Quella soluzione consentiva di controllare agilmente il liquido contenuto, il livello, la consistenza, il colore e le eventuali alterazioni della sostanza, generalmente oleosa, o liquida derivata da distillazione. Una cronaca redatta nel 1677 dal Francesco Bocchi (1548-1618), Le bellezze della citta di Fiorenza, in cui la spezieria è nominata con il titolo granducale di Real Fonderia, indicava che: “in un’altra stanza […] di scaffali addobbata sono […] numero grande di fiaschi d’acque stillate”, confermando quei procedimenti di laboratorio, rimasti invariati nel corso dei secoli.
[1] La “sala”, detta anche “stiancia ” è un’erba palustre (Typha latifolia) con lunghe foglie che, essiccate al sole e sbiancate con zolfo, erano utilizzate per il rivestimento dei fiaschi. Cresceva spontaneamente in prossimità di fiumi o di paduli. Per il rivestimento era mantenuta umida, divenendo maneggevole e meno tagliente. In Toscana, sino agli anni Trenta del ‘900, era raccolta in prossimità del padule di Bientina, di Fucecchio e lungo il percorso dell’Arno..