CIBO, BIRRA E VINO NELL’ANTICO EGITTO – LO SHEDEH DI TUTHANKAMON E IL MAREOTICO DI CLEOPATRA


CIBO, BIRRA E VINO NELL’ANTICO EGITTO...

Anna Cafissi

Alla metà circa del V secolo a.C. , il grande storico greco Erodoto di Alicarnasso si recò a visitare l’Egitto e successivamente, quando compose le sue celeberrime Storie, dedicò l’intero secondo libro dell’opera a questo straordinario paese.

Erodoto si interessò a tanti aspetti della vita e della cultura egizia del tempo, traendone moltissime informazioni; fra i numerosissimi temi trattati, parlò anche dell’alimentazione di quel popolo dalla civiltà millenaria.

Scrive lo storico: “Gli Egiziani mangiano pane e precisamente pani confezionati con segale… Si cibano di pesci, mangiandone alcuni crudi, dopo averli seccati al sole, altri conservati in salamoia. Fra gli uccelli essi mangiano crude le quaglie, le anitre e gli uccelli minuti che hanno salato in precedenza. Tutti gli altri uccelli e pesci .. tutti vengono mangiati arrostiti o lessati. … Fanno uso di vino distillato dall’orzo, poiché non ci sono viti nel loro paese” ( Storie II,77).

In Erodoto, ciò che è prodotto di fermentazione, viene definito vino (oinos); è però del tutto evidente che qui si parla di birra, fermentata dall’orzo. Da tempo immemorabile infatti la birra era la bevanda più consumata in Egitto; il suo uso è attestato per lo meno dal III millennio a.C. .

Nel 2021 è stata ritrovata ad Abydos da una missione congiunta fra Egitto ed USA (New York University) un grande stabilimento per la produzione di quantità, per così dire, industriali di birra e gli egittologi hanno ritenuto che l’impianto risalisse addirittura al 3100 a.C. . Si tratterebbe del più antico birrificio finora conosciuto nell’area mediterranea.

Quanto all’affermazione di Erodoto che non esistessero vigne in Egitto, bisogna precisare che questa è stata smentita sia dalle fonti iconografiche che papiracee; in realtà già da molti secoli in Egitto esistevano vigneti nella zona del Delta del Nilo: vicino al lago salato Mareotis e alla città di Tanis.

Ciò che lo storico greco dice del cibo, è riferito alla dieta degli artigiani, degli scribi e dei professionisti in genere, ma non dei sacerdoti, i quali “compiono un’infinità di pratiche religiose, ma godono anche di non pochi vantaggi…. Vengono cotti loro cibi sacri e quotidianamente ognuno di loro dispone di una gran quantità di carne di bue  e di oca. E vien fornito loro vino di vigna. Non è concesso loro mangiare pesce” (II, 37).

La pianura alluvionale, resa fertile dalle piene del Nilo, produceva di tutto: cereali, ortaggi, legumi e frutta, che costituivano la base dell’alimentazione del popolo, che viveva essenzialmente di tali prodotti. L’egiziano medio consumava quotidianamente pesce, verdura, molte cipolle, aglio abbondante, spezie, frutta, nonché birra.

Abbiamo alcune ricette in uso al tempo dei faraoni. Dei piccoli dolci al miele fritti dovettero essere molto graditi a Ramses III (XX dinastia) se fece dipingere all’interno della sua tomba (1155 a.C. circa) la procedura per realizzarli; occorrevano farina integrale, formaggio molle di pecora o di capra, miele e semi di papavero.

Nel novembre del 1922, dopo cinque anni di intense ricerche nella Valle dei Re, finanziate da George Herbert, Lord Carnarvon (che purtroppo mori’ poco dopo), l’egittologo britannico Howard Carter trovò finalmente l’ingresso di una tomba reale intatta.

Fu la scoperta del secolo!

Si trattava del sepolcro del faraone Tuthankamon (XVIII dinastia), morto a diciotto anni nel 1323 circa e fino ad allora pressoché sconosciuto.

Non è nostra intenzione elencare tutte le meraviglie d’arte fra gli oltre 5000 reperti trovati da Howard Carter negli ambienti (tre sale ed un’anticamera) quasi inviolati.

Ci basti dire che furono repertate, fra l’altro, diverse anfore vinarie, tre delle quali erano poste, in corrispondenza dei punti cardinali, ai lati della grande cappella dorata che custodiva il sarcofago reale. Un’anfora contenente un vino bianco leggero, adatto alla colazione del mattino, era ad est; ad ovest invece un’anfora di vino rosso, più forte e riservato al pranzo, ed infine un’ultima anfora di vino, definito ‘irep nefer nefer nefer’, cioè ‘ vino ottimo’, era posta a sud. Sopra vi era un’etichetta che recava la scritta “Shedeh di ottima qualità della casa di Aton del fiume occidentale. Capo enologo Rer”: siamo di fronte ad una delle prime etichette da vino della storia.

Inizialmente si è creduto che l’anfora avesse contenuto un vino dolce e non alcolico ottenuto dal melograno, o dalla palma, oppure dai datteri.

La parola egizia “irep” significa ‘vino’, ma il nome Shedeh non ha, almeno per ora, traduzione; è menzionato in alcuni papiri, fra i quali se ne distingue uno di età tolemaica (quindi di epoca tarda), oggi custodito al British Museum    (Pap. Salt 825; BM 10051). Il testo dice che lo Shedeh deve essere filtrato e scaldato;  quindi evidentemente si allude ad un vino cotto. Tuttavia, a causa di una lacuna nel papiro Salt, rimane sconosciuto il tipo di uva, bianca o nera, che dava origine allo Shedeh.

Gli enologi hanno ritenuto che si trattasse di un vino rosso, reso intensamente alcolico e dolce dalla cottura. Insomma, un buonissimo vino da dessert dell’età faraonica: rosso rubino intenso ed invecchiato.

La conferma a livello scientifico dell’ipotesi degli enologi è venuta nel 2006 da quattro ricercatrici dell’Universita’ di Barcellona, guidate dalle dottoresse Maria Rosa Guasch-Jane’ e Rosa Maria Lamuela-Raventos. Il team, ottenuto dalle autorità egiziane di poter prelevare dal fondo dell’anfora il residuo dell’antico vino, lo ha sottoposto a cromatografia liquida e a spettrometria di massa ed il risultato (pubblicato sul “Journal of Archaeological Science”, 33, 2006, 98 ss) ha confermato l’ipotesi che lo Shedeh fosse un vino dolce ottenuto da uve nere.

Era probabilmente il risultato della combinazione di uve di diversi vitigni, che tuttavia oggi non è più possibile individuare. Questa specialità veniva fatta invecchiare a lungo in anfore di terracotta.

Non ci resta che ricordare un altro rinomato vino egiziano, molto gradito, come riporta il poeta Quinto Orazio Flacco, alla regina Cleopatra (68-39 a.C.), che fu compagna di Giulio Cesare e successivamente di Marco Antonio, donna di grande personalità, intelligente e coltissima, ma notoriamente avvezza al bere eccessivamente.

Properzio  la descrive “ con la lingua impastata dal troppo vino” (“assiduo lingua sepulta mero”: 3, 11, 56) ed Orazio, in una famosa Ode (I, 37), definisce addirittura la regina “ebria”, cioè ubriaca e menziona il suo vino preferito, il Mareotico, prodotto in Egitto nei vigneti vicino al lago di Mareotis, una zona paludosa e salmastra del Delta occidentale, a sud di Alessandria.

Era un vino bianco e dolce, decisamente adatto ad una sovrana.

Voluttuosa e raffinatissima, Cleopatra si inebriava col Mareotico, talvolta  assieme a Marco Antonio, anche lui forte bevitore, come testimonia il filosofo Seneca in una lettera a Lucilio nella quale ricorda sia le buone qualità del triumviro che la sua nota ‘ebrietas’ (Ep. X, 83, 25).

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