EDUARDO DE FILIPPO – TEATRO E ARTE DELLA CUCINA: “Si cucine cumme vogli’i…”
Eduardo De Filippo – teatro e arte della cucina: “Si cucine cumme vogli’i…” Per Eduardo, genio del teatro italiano e napoletano del ‘900, attore, commediografo, regista,...
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Eduardo De Filippo – teatro e arte della cucina:
“Si cucine cumme vogli’i…”
Per Eduardo, genio del teatro italiano e napoletano del ‘900, attore, commediografo, regista, il cibo ha sempre avuto un grande valore, come in tutto il sud italiano, d’altronde, perché è un modo per apprezzare la vita, per celebrarla.
Il cibo per lui non era solo ciò che serve per sfamarci, ma una cosa sacra, che ci mantiene in vita, quindi è da amare e rispettare.
Scrive la moglie, Isabella Quarantotti De Filippo,nel suo bel libro “ Si cucine cumme vogli’i”, rieditato da Guido Tommasi Editore nel 2024: “…Nel suo modo di cucinare e in quello di mangiare in compagnia non c’era niente di sciatto o casuale, al contrario sottintendeva un rituale puntiglioso attraverso cui cercava di creare un’armonia di sapori primigeni in cucina, e a tavola una comunione di piacere nell’atto vitale di sostentarsi…Era sì goloso, ma senza sfrenatezza. Non dimenticava mai di essere nato povero”.
Molte ricette di Edoardo contenute nel libro appartengono proprio alla cucina povera napoletana, appresa da bambino dalla nonna materna, Concetta Termini, che fu uno dei suoi grandi affetti della vita, donna intelligente e creativa.
Così, a undici anni, diventò capace di sbrigarsela ai fornelli, e successivamente abile nell’elaborare ricette, di sperimentarle.
Leggendari, tra gli amici, erano le sue lasagne, il sartù napoletano di riso e il suo ragù.
E amava molto ospitare a tavola amici, colleghi e artisti nelle sue case di Posillipo, dell’isolotto di Isca, di Roma e di Velletri.
Nel suo teatro troviamo molto spesso scene dedicate al cibo:un tavolo imbandito, una cucina piena di pentole e coperchi, basti pensare al ragù di donna Rosa nella commedia “Sabato, domenica e lunedì” (1959).
Come scrive Dario Fo nella presentazione del libro di Isabella Quarantotti:
“…Non potrò mai dimenticare quella trovata a dir poco geniale di proiettare i profumi del ragù degli ziti di donna Rosa non solo sul palcoscenico, ma verso la platea a inondare i palchi fino al loggione…ogni spettatore si ritrovava…con il piatto in mano sul quale stavano rovesciati gli ziti fumanti, luculliani, odorosi…oltre che lo sguardo e l’orecchio, ecco che nel teatro entrava glorioso anche l’olfatto!”
De Filippo vuole sul palco teatrale cibo vero da mangiare, tavole imbandite con diverse vivande, il ragù fumante, la pastasciutta, i rigatoni, il pesce, la frittata di cipolle, tutto deve esprimere il concetto del “verosimile”.
Si pensi al banchetto di “ Napoli milionaria “ (1945), a quello di “Sabato, domenica e lunedì” (1959), alla tavola apparecchiata in “Filomena Marturano” (1946), al “Sindaco del Rione Sanità” (1960), a “Natale in casa Cupiello”(1931).
In “Sabato, domenica e lunedì”, come dicevo, De Filippo parla di drammi familiari ma anche del ragù e dei suoi segreti, della cucina napoletana povera, essenziale e saporita, paziente e filosofica direi.
Il ragù a Napoli è qualcosa su cui non si scherza, si ama e basta.
Dal francese ragout, cioè “mettre en appetit”, risvegliare, stimolare l’appetito, si fa, rigorosamente, con sedano, cipolla, carota, con due o più tipi di pezzi di manzo e maiale, passata di pomodori, poi fatto “pippiare”, come si dice in lingua napoletana, cioè cuocere molto lentamente, per ore.
Al Ragù Edoardo dedicò una nota poesia,
‘O rraù
‘O rraù ca me piace a me
m’ ‘o ffaceva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso;
ma luvàmell”a miezo st’uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avèssem’ appiccecà?
Tu che dice? Chest’è rraù?
E io m’a ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià…
M’ ‘a faje dicere na parola?
Chesta è carne c’ ‘a pummarola ( )
Impossibile non ricordare il caffè…da fare rigorosamente, per Eduardo, con la “napoletana”!
Nella sua commedia “ Questi Fantasmi” ( 1945) il monologo sul caffè è la perfetta sintesi della cultura napoletana del caffè, del suo valore simbolico, rituale e quotidiano, della gioia e della felicità uniche che riesce a evocare.
Ecco un brano del celebre monologo del balcone:
“A noialtri napoletani, toglierci questo poco di sfogo fuori al balcone… Io, per esempio, a tutto rinunzierei tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato. E me la devo fare io stesso, con mani. Questa è una macchinetta per quattro tazze, ma se ne possono ricavare pure sei, e se le tazze sono piccole pure otto per gli amici… il caffè costa cosi’ caro… La nuova generazione ha perduto queste abitudini che, secondo me, sotto un certo punto di vista sono la poesia della vita; perché, oltre a farvi occupare il tempo, vi danno pure una certa serenità di spirito…
Sul becco… lo vedete il becco? (Prende la macchinetta in mano e indica il becco della caffettiera) Qua, professore, dove guardate? Questo… Sul becco io ci metto questo coppitello di carta… (Lo mostra) Pare niente,
questo coppitello c’ha la sua funzione… E già perchè il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi e il più carico, non si disperde…
(Versa il contenuto della macchinetta nella tazza e si dispone a bere) State servito?… Grazie. (Beve) Caspita, chesto è cafè… (Sentenzia) é ciucculata!
…
Vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo: una tazzina presa tranquillamente qui fuori… con un simpatico dirimpettaio…”
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