Prefazione – 2023
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Pinocchio è nato nella Firenze postunitaria. Anzi, più probabilmente, è nato in quel contado fiorentino poco turbato dai grandi cambiamenti di fine Ottocento. Il Poggi aveva già realizzato le sue opere per rendere la città degna di essere capitale del Regno. Firenze era ricca di arte, di storia, di fame. La povera gente rappresentava, allora forse più che adesso, la parte più numerosa dei fiorentini, gente che ogni giorno faticava a mettere insieme il pranzo con la cena. Il libro di Collodi rispecchia questa realtà, per molti aspetti rurale e povera. La fame di Pinocchio è quindi una fame atavica. È una fame che si porta dietro fino dalla “nascita”. Collodi ci rende consapevoli di questo fin dalle prime pagine.
Ma Pinocchio è anche erede di quella Firenze che emerge da un’altra opera scritta nello stesso periodo, quella di Pellegrino Artusi. Le ricette che Pinocchio e gli altri personaggio di contorno sognano o consumano sono le stesse ricette poi codificate nel famosissimo ricettario. I cibi descritti, nell’uno o nell’atro caso, erano parte integrante della cultura, ormai non solo fiorentina, ma neppure pienamente italiana.
Carlo Lorenzini era figlio del cuoco dei Conti Ginori. L’universo culinario pinocchiesco si muove tra la costa tirrenica (con l’eccellente frittura di paranza del Pescatore Verde), la Romagna con i suoi tortellini, ma vi si ritrova soprattutto la cucina fiorentina (e, di riflesso, toscana) di tutti i ceti. È lo stesso universo dell’Artusi. Entrambi gli scrittori, il fiorentino e il romagnolo, sono figli di una cucina ormai parte del DNA di quella popolazione che, per dirla come Guccini, cantautore italiano, è “Romagna e in odor di Toscana”… o, meglio, Toscana e in odor di Romagna, di qua e di là dall’Appennino. Tra Collodi e Artusi non c’è quindi solo una parentela linguistica e di stile.
Il Collodi affronta l’argomento “gastronomico” in molti modi. A volte la fame del suo burattino viene semplicemente acquietata con espedienti. Le vecce, la biada, il fieno, le tre pere (bucce e torsoli compresi) ne sono alcuni esempi. Altre volte questi espedienti sfiorano la perfidia e non servono certo a calmare la fame. Ecco allora il paiolo dipinto, il pollo di carta, le albicocche di alabastro e il pulcino che salta fuori dall’uovo…
In alcuni casi è Pinocchio stesso che rischia di finire nella padella con i naselli e le soglioline, di essere nutrimento per il Pescecane o, addirittura, di essere usato come ciocco di legno da Mangiafuoco per la cottura del suo montone allo spiedo.
Se è vero che la maggior parte dei cibi e delle pietanze in Pinocchio appartengono all’alimentazione quotidiana “povera”, ci sono anche altri piatti che appartengono ad un’alimentazione non quotidiana, ma straordinaria, almeno per le classi sociali del burattino e degli altri protagonisti del romanzo. Sono i piatti più “ricchi”, quelli della tavola delle feste. Ci sono poi espressioni tratte dal lessico alimentare e usate in chiave metaforica, o altre espressioni oniriche che ci ricordano da vicino i piatti sognati da Calandrino alla ricerca dell’elitropia.
Un altro tipo di cibo è infine quello descritto da Geppetto a Pinocchio, quando si ritrovano nel ventre del Pescecane / balena: è il cibo dei grandi viaggiatori, quello che serviva di sostentamento per i lunghi viaggi in mare o quello esotico trasportato dai bastimenti. Neanche questo fa parte dell’alimentazione quotidiana.
Le pietanze quotidiane delle classi sociali più povere alla fine dell’Ottocento sono quelle che maggiormente caratterizzano Pinocchio: i legumi, la polenta, il pane, le uova… Addirittura Pinocchio, cioè Collodi, ci dà una descrizione dettagliata sui modi di cuocere un uovo da far venire l’acquolina in bocca, salvo poi trovarsi con un pulcino saltellante.
I cibi mangiati da Pinocchio rientrano sempre nell’alimentazione povera anche quando avrebbe la possibilità di mangiare meglio.
All’Osteria del Gambero Rosso Pinocchio chiede uno spicchio di noce e un cantuccio di pane, che neppure assaggia. Piatti solo all’apparenza più ricchi sono quelli del Gatto. Ma le triglie alla livornese o la trippa alla parmigiana facevano comunque parte di quella cucina “povera” che sapeva realizzare pietanze eccellenti con poco o niente. L’Artusi direbbe che sono “sempre un piatto ordinario, comunque cucinati e conditi”.
Pinocchio non ama il cavolfiore, così come l’Artusi, che lo considera “un erbaggio dei più insipidi”.
Meglio sicuramente il pane e salame, che Pinocchio sogna al posto della paglia, ma che non riuscirà mai a mangiare. In questo modo, il cibo povero tanto desiderato ha la connotazione di un cibo “ricco” per chi non può e non potrà mai averlo.
Spesso il burattino viene convinto a mangiare quello che non gli piace (o a prendere la medicina amara) con la promessa di un confetto ripieno di rosolio o di una pallina di zucchero. Il confetto e lo zucchero sono premi, non alimenti. Lo zucchero nella seconda metà del XIX secolo non era ancora di uso quotidiano.
Un discorso a parte meritano i piatti scelti dalla Volpe all’Osteria del Gambero Rosso. Collodi ci descrive piatti ricchi, non banali né poveri. La lepre in dolce e forte con contorno di pollastre ingrassate e galletti di primo canto sono ricette complesse, che necessitano una lunga elaborazione (che ritroviamo ben descritta nell’Artusi). È una pietanza di lusso, di élite.
La Volpe ordina anche un cibreino, un piatto prezioso che viene direttamente dal Rinascimento. Il cibreo della Volpe non è il cibreo dell’Artusi, ma si oppone per la sua ricchezza sfacciata alla trippa del Gatto e, soprattutto, al gheriglio di noce con il pane di Pinocchio.
Il burattino sogna una cantina piena di rosoli e alchermes, una libreria di canditi, torte, panettoni, mandorlati e cialdoni con la panna. Pinocchio sogna dolcezze straordinarie.
E poi ci sono le tazze di caffè e latte della Fata Turchina e i panini imburrati sotto e sopra… ma, sfortunatamente Pinocchio non assaggerà neanche queste cose.
Ci sono altri piatti non quotidiani che Collodi rammenta: i petti di pollo e il cappone in galantina, il risotto alla milanese e i maccheroni alla napoletana, di cui si ritrovano dettagliatissime ricette artusiane.
Collodi usa in molti casi termini e sequenze culinari. Sono espressioni di uso comune nella Firenze di fine Ottocento, ma che ormai, come tutto il suo capolavoro, sono entrati a far parte della nostra cultura. Pinocchio e la Scienza in Cucina dell’Artusi sono due facce della stessa medaglia, anzi, sono due modi diversi per descrivere la stessa vita quotidiana che va oltre le rive dell’Arno. La cucina fiorentina e la sua cultura sono ormai pronte a diventare italiane.