Prefazione – 2023
Prefazione Un magazine “contemporaneo” si nutre di dinamismo e vitalità, percepisce al volo gli input delle lettrici e dei lettori, si trasforma dando sempre il meglio. Insomma,...
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Abbiamo trascorso la quarantena con le mani in pasta e ci siamo fatti una cultura tra lieviti e farine. Vogliamo ora fare un piccolo viaggio per scoprire il “profumo di buono”...
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Abbiamo trascorso la quarantena con le mani in pasta e ci siamo fatti una cultura tra lieviti e farine. Vogliamo ora fare un piccolo viaggio per scoprire il “profumo di buono” anche in letteratura. La magia del pane prenderà per noi origine da una raccolta incompiuta di poesie di Daniel Varujan. Nel suo Canto del pane, in 30 poesie, il poeta armeno racconta la produzione e la lavorazione del pane, l’aratura dei campi, la semina, tutte le fasi che conducono alla trebbiatura attraverso le piogge di primavera, o le giornate di sole, fino al granaio e al mulino in cui la benedizione rende sacro il pane. Lungo il corso del ciclo del pane, si dipana tutto il tempo della vita.
Questa sera veniamo da voi, cantando il pane,
per il sentiero dell’aia,
o granai, granai;
nell’oscurità del vostro seno immenso
lasciate che sorga il raggio della gioia.
Il pane serve per ritrovare le radici. Non è cucina, è quasi una religione. Non è chimica, è una preghiera, un rito immutato di generazione in generazione.
Maurizio De Giovanni in Pane per i Bastardi di Pizzofalcone tinge di giallo l’arte bianca, ma è forse il libro che meglio riesce a donarci tutta la ricchezza culturale e sensoriale del pane. Il romanzo inizia con la fragranza di una favola, il sapore semplice di una storia antica, di una tradizione che si ripete. Pasqualino è il principe dell’alba e ogni giorno prepara il pane per il quartiere seguendo le antiche tradizioni di panificazione, con una ricetta tramandata da secoli, un impasto antico che profuma d’amore e che ha il sapore della devozione e della cura.
“Perché questo è un panificio tradizionale. Vedete quella roba, ispetto’? – indicò l’involto. – Viene dal passato. Non dico come invenzione, dico proprio quel lievito lì. Pensate che è stato fatto dal nonno di mio cognato, e ogni mattina all’alba lui viene…veniva per lavorarlo. Qua entrava solo lui.”
Simonetta Agnello Hornby ne La monaca ci regala una storia legata al pane che attraversa non solo il Mediterraneo, ma addirittura i secoli.
“Se ben conservata, questa pasta di lievito può durare a lungo”, e poi le raccontò che quel lievito veniva dalla pasta madre portata da Aleppo centinaia di anni prima dalle fondatrici del monastero, le monache biancovestite degli affreschi sulle pareti della scala principale. Costrette dall’avanzata dei saraceni a scappare in fretta e furia, le monache erano riuscite a portare con sé solo le sacre reliquie e una pallottola di lievito. Durante la durissima traversata del Mediterraneo avevano sofferto di terribile arsura, e la madre badessa, schiacciata la pallottola, se l’era tenuta tra i seni molli di tiepido sudore per evitare che il lievito, seccando, morisse. Agata si sentiva parte di un tutto che non aveva né fine né principio – la vita, la crescita, e associava il mistero della panificazione a quello dell’eucaristia. Che una infinitesimale parte della pallottola di pasta fermentata portata da Aleppo tra i seni della badessa, unita ad acqua e farina di Napoli, potesse ancora dare pane fresco, saporito e croccante era un ripetere il miracolo della vita e la sua crescita. Agata, con le dita appiccicate di pasta, glorificava Dio ed era grata e felice di essere stata prescelta per onorarlo in quel modo.
Grazia Deledda, nel racconto Pane casalingo, trasfonde di un’aura sacra una scena familiare. Tutto ne è pervaso: la madre, i semplici attrezzi per la panificazione, i gesti antichi, le leggende narrate a bassa voce, il pane come dono…
“Fare il pane in casa, come tuttora si usa in moltissime case anche borghesi delle provincie italiane, non è una cosa facile e semplice quale si potrebbe credere. Mia madre, nella nostra casa di Nuoro, giunto il momento d’iniziare la faccenda, prendeva un aspetto più del solito attento, serio, quasi sacerdotale.
La mano sottile ed esperta provava, versava, palpava il contenuto delle corbe di asfodelo, preparava il largo canestro, i setacci col fondo di seta, i vagli sottili e lucenti come intessuti di fili d’oro; separava la farina dalla crusca, il fiore bianco della farina da quello bruno, il semolino dalla semola color d’avorio. Ella ne usciva tutta incipriata, pronta come per una festa.
Veniva poi fuori il lievito, dal ripostiglio dove, entro una scodella dorata che sembrava un vaso sacro, lo si conservava dall’una all’altra cottura del pane; e sopra il mucchio che lo accoglieva e seppelliva, sciolto come una linfa vitale, la mano bianca di farina segnava una croce: croce che veniva ripetuta sul viso prono come a specchiarsi nel cerchio della corba preziosa.
Del pane fresco ne veniva mandato uno o due in regalo a parenti e vicini di casa, che a loro volta lo restituivano nei giorni della loro cottura: se capitava un amico, od anche un occulto nemico, e soprattutto un povero o un mendicante, si ripeteva l’offerta; e se il mendicante arrivava per caso di lontano ed era sconosciuto, pensavano che potesse nascondere la persona di Lui. Lui! Il solo che può prendere migliaia e migliaia di forme per provare il cuore del prossimo: Lui, che scelse appunto il pane per la sua comunione d’amore con l’uomo”.
Eccoci arrivati allora al pane e sale offerto all’ospite: il sale simboleggia la stabilità dell’amicizia, la volontà di conservarla allontanando ogni negatività che possa intaccarla; insieme al pane, cibo che simboleggia la prosperità e l’abbondanza. “Pane e sale si offre all’ospite sacro. A nord, ad est, a sud, ad ovest in Europa.” In Germania era usanza portare pane e sale all’inaugurazione di una nuova casa, perché fosse di buon auspicio. Ne troviamo traccia all’inizio del romanzo di Thomas Mann I Buddenbrook, quando si descrive la scena del pranzo di inaugurazione della nuova abitazione della famiglia protagonista del romanzo, al numero quattro di Mengstrasse di Lubecca: «S’erano accomodati sulle seggiole e sul sofà; il dottor Grabow contemplò le focacce, i pani con l’uvetta e le diverse salierine piene che stavano in bella mostra sulla tavola. Erano il «pane e sale» che parenti e amici avevano mandato alla famiglia per il cambiamento di casa. Poiché però bisognava che si vedesse che i doni non giungevano da case modeste, forme zuccherate, speziate e pesanti rappresentavano il pane, e il sale era racchiuso dall’oro massiccio.»
ILARIA PERSELLO