Prefazione – 2023
Prefazione Un magazine “contemporaneo” si nutre di dinamismo e vitalità, percepisce al volo gli input delle lettrici e dei lettori, si trasforma dando sempre il meglio. Insomma,...
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Il rigoroso e puntuale Immanuel Kant, pietra miliare verso la filosofia moderna, croce e delizia degli studenti liceali, aveva anche una sua precisa “etica gastronomica”.
Dopo aver ottenuto la cattedra universitaria e con essa la sicurezza economica, acquistò finalmente una casa nella prussiana Konigsberg ed assunse una cuoca, smettendo così di pranzare in osteria.
Fra serio e faceto cerchiamo di ripercorrere questo gusto d’autore attraverso le ore di una giornata normale.
“Signor professore, è l’ora!” Così il maggiordomo Lampe, ex – militare, svegliava impietosamente Kant alle 5 del mattino. La colazione era più che frugale: due tazze di tè ed una pipa di tabacco, l’unica della giornata. Poi, nell’ordine, meditazione, università, lavoro a casa. Finalmente, alle 12.15 i preparativi per il pranzo, annunciati dal solenne ingresso in sala della cameriera con l’immancabile caraffa di rosso. Proprio il vino fu una delle passioni del filosofo e parte fondamentale del rito conviviale. Le sue preferenze andavano ai vini del Reno e, soprattutto, al Medoc. In età avanzata affiancherà al rosso il bianco (meno astringente), mai però più di un quarto di litro, visto che l’intensità del gusto doveva procedere insieme alla moderazione. Ai suoi occhi, infatti, il gusto non doveva mai essere legato ad una vera e propria necessità, ma sempre e soltanto alla delicatezza dei nostri organi.
Negli ultimi anni della sua vita, dopo la minestra calda della cena, era solito bere una sorta di panacea: un sorso di Bischof ovvero vino rosso, preferibilmente ungherese, con zucchero, buccia d’arancia, cannella e chiodi di garofano.
Alle 13 precise, nell’abitazione della prussiana Königsberg aveva inizio la cerimonia del pranzo, che Kant “officiava” sempre in compagnia, mai da solo. Di frequente, Kant in persona dava istruzioni al domestico per la preparazione della tavola e per la stessa scelta di piatti e posate, molto spesso quelle buone d’argento. I commensali, seduti in posti non casuali, erano sempre oscillanti da tre (le Grazie) a nove (le Muse).
“Un buon pranzo in conveniente compagnia– sosteneva il padrone di casa – concilia bene fisico e morale”. Proprio per questo il gruppo degli invitati doveva essere misto e disparato, con presenza nutrita anche dei suoi studenti e del loro tocco di gaiezza e giocondità. Il segnale convenuto per dare avvio al pranzo? Sempre lo stesso. Dopo aver spiegato il tovagliolo, il professore pronunciava l’immancabile invito: “Avanti, Signori!”.
Si mangiava sempre molto bene a casa Kant. La filosofia chiara: “Il gusto richiede varietà”. Le portate rilevanti, di solito, erano tre. Nelle stagioni più miti si aggiungevano frutta e dessert. Si iniziava dalla minestra: di solito brodo di carne di vitello con riso, grano brillato o capellini, a cui Kant aggiungeva fettine di pane di segale per renderla più densa. Era poi la volta del pesce, servito con legumi o verdure. Il professore andava infatti matto per il baccalà. A seguire, arrivava in tavola la carne di manzo, che l’ospite esigeva frollata, tenera e ben cotta. Immancabili le salse di accompagnamento, su tutte la senape, inglese o di produzione domestica, che Kant metteva ogni dove, spalmandola in abbondanza anche sul pane, che voleva sempre di buona fattura. Non mancava quasi mai neppure il formaggio. In testa alla lista quello olandese, di cui il filosofo era ghiottissimo, tanto che il domestico, su suggerimento pressante del medico, a volte era costretto a nasconderglielo.
Il padrone di casa usava accompagnare il cibo e le portate con commenti e note argomentate; era solito spaziare su tutto, rivelandosi amabile e cordiale conversatore, ben diverso dal cliché paludato che ne caratterizzava l’immagine pubblica.
A volte, ahimè, arrivava il mal di stomaco e Kant, disattendendo anche stavolta le prescrizioni mediche, cambiava le gocce consigliate con un bel sorso di rhum. Altre volte si affidava a precetti salutistici di tipo naturale e preventivo. Così, durante l’estate, era solito pranzare con la finestra del giardino aperta, guardando dal suo osservatorio l’antica torre di Lobenicht, nella convinzione che l’aria pura favorisse, allo stesso tempo, l’appetito e la digestione. Allo stesso modo, non disattese mai il rito della passeggiata postprandiale, sempre attraverso il “viale dei tigli” e rigorosamente da solo. Moto utile, allo stesso tempo, per digerire con profitto, proseguire il filo delle meditazioni e, soprattutto, respirare meglio. Kant era infatti convinto che una passeggiata solitaria e silenziosa, in cui si respirasse solo dalle narici, portasse ai polmoni un’aria meno cruda e più calda. Al riguardo si vantava di una lunga immunità da raffreddori e malattie simili.
Ci piace immaginare che questo uomo piccolo, magro e fragile di statura, ma i cui occhi “parevano fatti di etere celeste”, avesse accarezzato il progetto di scrivere, accanto alla ponderosa Critica della ragion pura, una più feriale e domestica “critica” dell’arte culinaria. Quando morì, quasi come involontario tributo postumo a questa “competenza” kantiana, la sua dimora divenne una locanda e ogni anno i suoi amici si davano lì appuntamento per commemorare l’anniversario della scomparsa del maestro.
FRANCO BANCHI